Meglio tre parole

Quando si scrive, una delle tante regole da tenere a mente - e scrivere è un'arte densa di regole, forse la più densa in epoca moderna - è quella che possiamo definire "della brevità". Scrivere tre parole è meglio che scriverne cinque, quando le tre parole e le cinque hanno lo stesso significato. Ma è davvero così?
Quando l'argomento è venuto fuori, in una delle lezioni di scrittura creativa, ho chiarito alla mia classe che, in quanto regola, doveva però essere usata solo come extrema ratio. Cerco di spiegarmi perché credo che, troppo spesso, il suo significato venga frainteso.

the X-TREME (ratio)
COSA SIGNIFICA 
Non so chi in origine enunciò questa regola. Sospetto che la si possa rintracciare in qualche manuale di atticismo, ma confesso che non ne ho mai letto nessuno*. Oggi comunque fa parte di quel bagaglio di massime sulla scrittura, creativa e non, che accomuna la maggior parte degli autori di professione. Il senso che se ne ricava è che uno scrittore debba essere diretto e preciso il più possibile, quando scrive; che non debba aggravare un testo col peso della propria retorica. L'idea è che, più il mezzo di espressione è complesso, più si rischia di disperdere l'informazione. Sono quindi sconsigliati, anche se non proibiti, i giri di parole, le strizzatine d'occhio e le similari, soprattutto per gli scrittori alle prime armi, che 1) rischiano continuamente di scivolare in un tipo di scrittura opaca (più parole hai a disposizione, più è facile che tu possa intervenire nella storia e fare qualche considerazione inopportuna) e 2) ancora non hanno sviluppato un orecchio per la prosa. Naturalmente, anche per i puristi, questa regola vale al netto di tutte le altre. Scrivere "Stefano era triste" piuttosto che descriverne le rimuginazioni e i corrispettivi fisiologici rispetta la regola della brevità, ma potrebbe ignorare quella dello "show, don't tell"... qui entriamo a gamba tesa in un discorso molto lungo, che sarebbe meglio affrontare in uno spazio apposito.
Forse è meglio, per analizzare la regola in dettaglio, studiarne qualche esempio. Ecco, prendiamo un piccolo testo del tipo:
Pensò, con una punta di arrendevolezza, che quando qualcuno inizia a fare qualcosa, allora dovrebbe essere tagliato per fare quella cosa. Pensò che questa era una regola generale, vale a dire valida sempre e per tutti. Pensò che questo significasse avere talento.
Un testo non pessimo (bisognerebbe valutarlo nel suo contesto per dirlo) ma comunque brutto, assolutamente passabile di potatura. Spero non ci siano dubbi su questo. Adesso proviamo ad applicare questa benedetta regola della brevità per ricavarne l'essenziale:
Dobbiamo essere tagliati per quello che facciamo, tutti quanti, pensò.
Una frase condensata di cui potremmo accontentarci. Ma siamo sicuri che non possiamo, veicolando lo stesso significato, ridurla ancora un po'?
Dobbiamo essere tutti tagliati per quello che facciamo.
Et voilà, più di così non si può fare. Voi quale delle tre versioni preferite? Un indizio: Hemingway, che scrisse questa frase ne Le Nevi del Kilimangiaro - uno dei suoi racconti più tardi, quelli che corrispondono alla perfezione della sua maturità -, non preferì la più corta.


Il punto è che, quando si scrive un testo, non è il numero di parole quello che si considera. Ogni frase ha un proprio equilibrio, o una propria armonia, che va a creare l'equilibrio del paragrafo, e poi del capitolo, e infine del romanzo stesso. A volte questo equilibrio necessita di più parole per essere mantenuto. E parlo da un punto di vista squisitamente formale e non contenutistico. Leggere una frase breve, senza coordinate, con una scelta di vocaboli aspri, avrà un effetto ben diverso dal leggere la stessa frase - la stessa azione descritta, diciamo - ma in un periodo ricco di subordinate e di suoni dolci. Anche mettendo tra parentesi tutto questo (mi si potrebbe obiettare che anche quello, allora, è contenuto), la bellezza di una frase neutra è data dai rapporti tra le parole e i segni di punteggiatura al suo interno. Non credo davvero, in cuor mio, che uno scrittore possa ignorarlo, o anche far finta che non sia vero**.
Se poi si abdica all'idea che la letteratura sia un'arte, o almeno un'arte in potenza, della musicalità della forma uno se ne può anche sbattere le p°°°e. Per carità, liberissimo. Ma io tengo al fatto che, pur mantenendola la più possibile trasparente, la mia scrittura sia ben equilibrata, o armonica, se è più chiaro questo termine. Questo significa che, in corso di rilettura, a volte mi capita non di accorciare una frase, ma di allungarla. Di preferire una versione più lunga. Ad esempio, di allungare la coda di un periodo.
Quando dico che questa regola va usata solo come extrema ratio intendo quindi che, a parità non solo di contenuto ma anche di forma (se, cioè, la frase con cinque parole e la frase con tre parole hanno un effetto indistinguibile sul resto del testo), allora è preferibile la frase con tre parole. Naturalmente, nella prosa narrativa, spesso la forma più breve è anche la più musicale, ma questo è lungi dall'essere una regola generalizzabile, qualcosa di vero sempre. Diciamo che esiste un rapporto di cinque a uno in favore della forma breve: cinque volte in cui è meglio tagliare un po', dalla prima stesura, per ognuna delle volte in cui sarebbe meglio allungare. Ma prendete un testo di trecento pagine e dio-solo-sa-quante frasi: la proporzione rimane la stessa, ma il numero di frasi che peggiorerebbe se esse venissero tagliate diventa altissimo.

LA PRIMA PERSONA
Esistono comunque due casi, nel mondo della scrittura, in cui di questa regola dobbiamo dimenticarci del tutto. Sono i casi in cui la forma è il contenuto.
Consideriamo il discorso diretto - si intendano anche quei particolari momenti della terza persona (interna) in cui ci si sintonizza con la frasepensiero del personaggio-punto di vista - o anche, più semplicemente, la narrazione in prima persona. In entrambi i casi non bisogna tenere a mente di preferire le tre parole alle cinque parole; bisogna preferire solo quello che direbbe il personaggio. Il che quasi mai soddisfa la regola della brevità (a meno che, ad esempio, il personaggio-P.d.V. non sia uno scrittore in erba). Noi non parliamo né pensiamo in maniera trasparente, e allo stesso modo non parliamo né pensiamo usando il minor numero di parole possibile. E non possiamo sporcare il personaggio per mantenerci nei limiti imposti della nostra scrittura.
Prendiamo ad esempio, stavolta, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, Gentiluomo di Laurence Sterne. In questo romanzo in nove volumi sembra valere la regola opposta: se si può dire qualcosa con tre parole, allora è meglio sforzarsi di dirla con cinque. Certo il Tristram Shandy è un'opera parodistica, ma rappresenta una prova importante perché è tanto più piacevole da leggere della maggior parte dei libri scritti da chi rispetta la regola della brevità! E stiamo parlando di Sterne, non di Proust: un livello che, anche se difficile, è perfettamente raggiungibile anche a chi non sia stato benedetto dal fattore genio.

INSOMMA
Insomma, non sto dicendo di ignorare la regola della brevità. Anzi, consiglio di tenerla bene a mente, soprattutto se siete alle prime armi. E anche se siete scrittori navigati e vi trovate in dubbio. Ma è una regola in generale molto mitizzata; è un suggerimento, al più. Dovremmo chiederci se quella frase non starebbe meglio con meno parole, e non partire dal presupposto che sia così e agire di conseguenza, come un rullo compressore.

_________________
*L'economia espressiva che raccomandava Calvino coincide solo in parte con la regola della brevità, ed è piuttosto una conseguenza della sua ricerca di rapidità e densità - di cui la brevità, intesa come conteggio di parole, è appena una delle sfaccettature. Lo stesso si può dire, se ricordo bene, del Leopardi dello Zibaldone. Quindi mi rassegno e risalgo fino a una frase di Guglielmo di Ockham, che è un principio di economia scientifica che a volte viene confuso con un principio di realtà: frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora - vanamente sarà fatto con più cose ciò che può essere fatto con meno.
**Non riesco a immaginare l'incubo di tradurre un buon testo da una lingua straniera. Fortunatamente non tengo lezioni di traduzione. Sarà per questo, credo, che in Italia si usa dire "Traduttore traditore".


(Ringrazio il blog Book and Negative che mi ha dato lo spunto per questo argomento. Leggendolo, non credo che il suo autore sostenga la "tesi forte" della regola, ma che sappia istintivamente quando applicarla e quando no. Del resto lui si occupa di scrittura per lavoro, e probabilmente ne sa molto più di me.)

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