Shakespeare e Lear - ovvero i pensieri di un giovane scrittore

I festeggiamenti per il quattrocentesimo dalla morte di Shakespeare non sono ancora terminati, ma io non ho quasi portato avanti il mio progetto di divulgazione sul blog. Questi sono, per ora, gli unici contributi che ho dato col mio piccolo studio del Bardo. Oggi vedremo di rimediare con qualche parola, sempre in piccolo, sempre in proporzione alle mie capacità.


Tempo fa stavo leggendo un articolo sul Re Lear. Fino a qualche anno fa condividevo l'opinione non proprio lusinghiera di Tolstoj sul Re Lear, ma nel frattempo l'ho cambiata in maniera radicale. Ora credo - come la maggior parte delle persone - che si tratti di uno dei massimi drammi di Shakespeare.
Nell'articolo che stavo leggendo, dicevo, si discuteva della misteriosa scomparsa del Matto. Chiunque veda per la prima volta la tragedia rimarrà stranamente confuso (almeno, io sono rimasto confuso) dalla scomparsa del Matto, da un atto all'altro, così, senza spiegazione. Dov'è il Matto? continuavo a chiedermi. Solo verso la fine, mi pare, Lear dice che il suo povero matto è stato appeso - col che vorrebbe dire impiccato. Ma non solo questa morte avviene fuori scena, il che già di per sé confonderebbe il pubblico, addirittura non viene neanche discussa. Cosa che stride con quello a cui ci ha abituati Shakespeare, attraverso i suoi dialoghi brillanti e le sue vivide descrizioni. Non è l'unica morte di cui Shakespeare non parla, basti pensare a quella di Rosencrantz e Guildenstern alla fine dell'Amleto, ma in genere riusciamo comunque a ricavarci un'immagine abbastanza precisa del fatto. Qui solo l'ellissi.
Bene, l'articolo sosteneva che il Matto aveva una funzione di sostegno per Lear, e quindi sparisse allorché in scena riappariva l'altro sostegno di Lear, Cordelia. Il Matto non serve più e Shakespeare lo mette da parte. Si dà cioè un'interpretazione psicologica della scomparsa del Matto. Cosa che mi ha sorpreso molto, dato che il Matto sparisce quando arriva Cordelia perché l'attore che lo interpretava era lo stesso che interpretava lei! Shakespeare si è trovato a dover affrontare un problema meccanico, interno alla rappresentazione stessa, non qualcosa di metaforico o trascendentale. Sì, il Matto è un sostegno per Lear, ma non è per questo che sparisce (forse è il motivo per cui è stato creato in primis, dopo la partenza di Cordelia per la Francia).
Spesso dimentichiamo, e ci piace dimenticare, che le opere d'arte nascono da fatti materiali. Quando Freud parlava del Complesso d'Edipo nell'Amleto, sapeva che Shakespeare aveva tratto il suo dramma da una storia vera o perlomeno da una tragedia precedente di Thomas Kyd, e non dalla propria fantasia? Onestamente non ho trovato nulla che me lo faccia pensare. Ma senza quel tassello, tutta la teoria resta un po' fantasmatica.

SHAKESPEARE E I SUOI PERSONAGGI
Nessuno - la dirò grossa - ricorda Shakespeare per le sue trame. Quando il Bardo di Stratford-upon-Avon non saccheggiava dai suoi predecessori Chaucer, Marlowe, Ovidio..., non credo abbia mai prodotto una storia degna della sua fama. Shakespeare viene ricordato, anzi viene osannato, e a ragione, come centro del canone letterario anglosassone, per la sua intelligenza (qualunque cosa noi intendiamo con intelligenza, siamo certi che Shakespeare ne avesse in abbondanza), la sua maestria mai eguagliata come poeta e dialoghista, e soprattutto per i suoi personaggi.
Io, da scrittore più che da psicologo, mi sono spesso interrogato sulla natura dei personaggi shakespeariani. Borges una volta scrisse che, in un romanzo, la trama è una scusa per mostrarci i personaggi: non so se dire lo stesso delle opere di Shakespeare, ma la sensazione che lasciano è proprio quella. 
Prendiamo Iago o Edmund, ad esempio, i due antagonisti meglio riusciti di tutta la produzione shakespeariana (come dire, di tutta la produzione mondiale). Le loro motivazioni sono, se non proprio vuote, comunque nebulose: vendicarsi di Cassio e di Otello che lo ha preferito a lui, Iago; affermare una sorta di dignità del bastardo, Edmund. Noi pubblico ci accontentiamo di una spiegazione alternativa: fanno il male perché sono malvagi, agiscono con astuzia perché sono machiavellici. Ma in fondo cosa ci importa ciò che li muove? Sono personaggi straordinari e questo ci basta. Se dobbiamo sopportare la loro povertà di motivazioni per godere della loro compagnia, direi che siamo dispostissimi a farlo.
(Lo stesso si può dire dei personaggi positivi, o meglio dei protagonisti, di Shakespeare. Harold Bloom ha osservato, a ragione, che una semplice storia di vendetta è qualcosa di troppo meschino per un personaggio come Amleto).


PRIMA I PERSONAGGI, POI LE DONNE E I BAMBINI
Io credo che i personaggi di Shakespeare preesistano alle sue storie. Nelle storie vengono plasmati, ma quello che è il cuore del personaggio è già vivo nella mente di Shakespeare. Suona più romantico di quanto io non intenda. Ecco, facciamo un esempio: Edgar, sempre del Re Lear, così rimaniamo in tema. Io immagino che Shakespeare avesse bisogno di un Tom o'Bedlam per esigenze drammaturgiche, di una guida per i suoi matti e i suoi ciechi. Non c'è motivo per cui Edgar avrebbe dovuto interpretare un Tom o'Bedlam (e che Edgar, figlio di Gloucester, scelga di diventare il povero Tom sorprende ancora oggi molti critici). Non c'è neanche motivo per cui il buon Edgar si comporti in maniera tanto atroce con suo padre, e non è neanche chiaro come alla fine egli riesca a trovare la forza per sfidare e uccidere suo fratello Edmund. Ma se noi per un momento riuscissimo a dividere la funzione narrativo-dialogica di Tom o'Bedlam da Edgar il personaggio, come potremmo dividere un uomo dai suoi vestiti, e pensassimo che è per comodità (comodità non intesa in senso dispregiativo, come qualunque scrittore potrà capire: a volte una trama necessita di una data azione, o di un dato oggetto, o di un dato dialogo, che noi lo si voglia o meno) che Shakespeare ha trasformato Edgar in Tom, direi che abbiamo risolto il problema. Tenendolo a mente, quando assistiamo a una rappresentazione di Shakespeare, la maggior parte di quelle che potremmo considerare strane incongruenze nei personaggi diventano non chiare ma perlomeno comprensibili. Il comportamento esiste indipendentemente dal personaggio, e quel personaggio esiste indipendentemente dal suo comportamento (e lo psicologo che è in me si contorce). Noi conosciamo i personaggi di Shakespeare in primo luogo dai loro monologhi e dai loro soliloqui, e non dalle loro azioni o dalla loro funzione all'interno dell'architettura del dramma. Il comportamento appartiene alla trama, ma il resto del personaggio appartiene all'eternità.


Non mi viene in mente un solo momento in cui un personaggio di Shakespeare cambi se stesso a seguito di un dialogo. Il massimo che fa, come nel caso di Otello, è svelare se stesso a seguito di un dialogo. Le uniche parole che sono in grado di cambiare un personaggio shakespeariano sono quelle che lui stesso pronuncia, spesso in un soliloquio. A livello psicologico, tra i personaggi di un dramma shakespeariano quasi non c'è contatto: Edgar soffre per Gloucester, e Gloucester soffre per Edgar, ma queste sono caratteristiche intrinseche dei personaggi. Non c'è reale contatto tra i due uomini. Ognuno segue la propria strada anche quando si tengono per mano. Un pensiero che è magnificamente rappresentato da Shakespeare stesso, allorché Gloucester, una volta accecato, non riconosce suo figlio.
I personaggi di Shakespeare preesistono alle trame ed esistono quasi al di là degli altri personaggi, se capite il mio pensiero. Che sia questo spazio di libertà assoluta, nel quale potersi sviluppare appieno, ciò che li rende tanto meravigliosi? Tanto veri? Che permette ad Amleto di essere Amleto e non solo un malinconico principe danese, o a Falstaff di essere Falstaff e non solo un grasso cavaliere pieno di sé? Credo sia così. O, comunque, che sia uno dei motivi principali.

Se esistono casi paragonabili a quello dei personaggi shakespeariani, nel resto della letteratura, non saprei dirlo, ma ne dubito. Raskolnikov non è solo un assassino, certo... ma esisterebbe senza l'assassinio, al di là dell'assassinio? Esisterebbe per noi, esisterebbe per Dostoevskij, senza quell'atto creativo, demiurgico, che è l'assassinio che compie? Chi lo sa.

CONCLUSIONI
Amiamo Shakespeare perché amiamo i suoi personaggi, in particolare noi stranieri che raramente apprezziamo la sua scrittura senza intermediazioni. Sono, tra le maschere della letteratura, le più vive in assoluto, tanto che suona orribile definirle "maschere".
Forse solo Dante riesce a eguagliare l'abilità di Shakespeare; ma la libertà di cui godono i personaggi shakespeariani, la libertà di esistere a prescindere da tutto quello che succede in scena, che succede a loro e attorno a loro, è un risultato davvero unico del Bardo. 

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